Nell’ambito del Festival Close Up, e in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Canova22 presenta la prima personale di Barbara Cannizzaro dal titolo “Io e le altre”, curata da Laura Fusco.
La mostra all’Antica Fornace del Canova si sviluppa in tre ambienti e ripercorre, in tre differenti tappe, l’evoluzione di una ricerca durata oltre dieci anni. La selezione degli scatti ha interessato più cicli fotografici (Ritratti sbagliati, Vite Imperfette, Non-conforme, etc), dal suo primo approccio alla fotografia, che ha riguardato essenzialmente l’autoritratto come strumento di indagine introspettiva, all’esplorazione dell’universo femminile che ha coinvolto tante altre donne in un percorso di consapevolezza, accettazione ed emancipazione. La violenza di genere, nelle sue molteplici declinazioni e sfumature, è il campo di indagine che l’ha portata dall’IO al NOI, dal personale al sociale, facendole incontrare tante “sorelle” lungo la strada. Le cicatrici delle altre donne sono per Barbara i solchi da cui sradicare il male depositato dagli stereotipi, e da tutte le forme di aggressione verbali e fisiche.
“Secondo una ricerca dell’Oms, negli ultimi anni, in Italia i disturbi alimentari sono cresciuti da 600mila casi a 3 milioni. Più del 90% delle persone affette da tali disturbi è donna con numeri drammatici di autolesionismo e tentativi di suicidio. L’abuso fisico, psicologico e sessuale è un problema sanitario che colpisce oltre il 35% delle donne in tutto il mondo. Dati che trovano conferma anche in Italia, dove una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Sono quasi 7 milioni le donne vittime di maltrattamenti, nella maggior parte dei casi da parte di partner o ex compagni. È proprio per i suoi risvolti devastanti che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la violenza come «un problema di salute pubblica globale», uno dei principali fattori di rischio, di cattiva salute e di morte prematura per le donne e le ragazze.”
PRIMA TAPPA> IO
Barbara sin da giovanissima sperimenta sulla propria pelle la gamma dei disagi che trovano espressione nei disturbi dell’alimentazione, che usano il corpo come strumento di controllo e sfida. Quando il mondo appare come un luogo insicuro, le giovani donne vivono una profonda sofferenza e il desiderio di diventare invisibili. L’angoscia e la solitudine diventano sue compagne di viaggio, schiacciandola nell’angolo nascosto di una ferita che nessuno sguardo poteva penetrare, un muro che la separava dagli altri, dal mondo.
Quando le regalano una macchina fotografica intuisce che quello strumento rappresenta per lei l’opportunità di scandagliare il suo vissuto per far emergere il sommerso. L’arte ha il potere di dare voce alle inquietudini più profonde, di valorizzare l’esperienza individuale e restituire uno sguardo nuovo sulla realtà, per generare nuove narrazioni, far sbocciare nuove speranze. In particolare, l’autoritratto rappresenta un potente mediatore per esplorare le profondità psicologiche, un efficace mezzo per acquisire consapevolezza e accettazione di se stessi, un sistema per imparare a “vedersi” ed accedere all’inesprimibile. Puntando su di sé l’obiettivo Barbara ripercorre per immagini la sua storia, e attraverso la fotografia, abbraccia la sfida analitica che praticherà sulla sua carne viva. Il corpo che percepiva come un guscio vuoto, quel corpo sbagliato che il mondo vorrebbe perfetto, ma condannato a non raggiungere mai né perfezione né felicità, diventa protagonista delle sue foto, teatro per la messa in scena di una metamorfosi. L’obiettivo lo ritrae nella sua crudezza, rannicchiato, raccolto, piegato, spesso di schiena, sembra nudo anche quando è vestito; il volto è nascosto, quasi sempre in ombra, oppure dissolto difronte allo specchio. È un lavoro claustrofobico, fatto di vuoti e di assenze, svolto nel chiuso di stanze desolate, spazi quotidiani quasi sempre senza luce, dove le sue fragilità diventano palpabili. Gradualmente questo lavoro l’accompagna fuori dall’isolamento, dalle spirali della sofferenza che spingevano il suo corpo sempre oltre il limite, aiutandola a riconciliarsi con il sé negato. A mano a mano la sua figura riaffiora alla luce, si amplifica, moltiplica e ricompone sotto i nostri occhi, lasciando emergere le conquiste, le riappropriazioni, le strade tracciate verso nuovi sentieri narrativi. L’obiettivo mette in moto la sua radicale trasformazione e converte la sua friabilità in lotta, il suo corpo rotto in linguaggio poetico sublimandone l’essenza, tracciando la strada per la guarigione.
Sono oltre 60 foto di piccolo formato, perlopiù in B/N, scattate in anni di ricerca, allestite come un’opera unica per coglierne la forza d’insieme, distribuite apparentemente senza un ordine. L’artista affida all’osservatore il compito, anzi la responsabilità, del senso di ciò che vede, di cogliere le tracce nascoste nei frammenti di sé che ci offre nei suoi toccanti autoritratti. Sin dalla prima foto, il lavoro di Barbara ti cattura trascinandoti in una vertigine di solitudine e malessere. Per noi che osserviamo, in rigoroso silenzio, sembra quasi una violazione della sua intimità. A mano a mano che sfogliamo il suo diario fotografico però emergono gli indizi che rivelano anche i bagliori di un’opera fatta di mutazioni impercettibili e transitorietà, di graduali progressi e contrapposizioni tra presenza e assenza, identità e cambiamento, luci e ombre.
Su una parete, all’interno di una nicchia, è collocato un ritratto allo specchio, una sorta di omaggio alla sua prima macchina fotografica, ma anche la testimonianza di una prima importante conquista: vi si può intuire, ma non ancora vedere, il suo volto. I due successivi scatti ci mostrano il suo occhio e poi anche il suo viso che emerge dal buio: un passaggio che rappresenta una vera e propria epifania.
SECONDA TAPPA> Dall’io al noi | Dall’autoritratto al ritratto
Per qualche anno la ricerca di Barbara ha interessato esclusivamente il suo privato. Quando decide di mostrare le sue foto, incomincia ad interrogarsi sui confini tra l’Io e l’altro. Allargando lo sguardo su altre donne, dà vita ad un nuovo filone di indagine che la porta ad incontrare la malattia nelle altre. Affiora una nuova timida consapevolezza: la fotografia l’aveva in qualche modo curata e poteva diventare uno strumento per aiutare altre donne in un processo di superamento delle difficoltà generate da varie forme di violenza. L’esperienza dell’arte si trasforma in un atto di resistenza che avvicina profondamente gli esseri umani, aiutandoli a riflettere, stimolandone il pensiero critico.
Inizia qui la seconda tappa di questa mostra. Al centro della sua ricerca ancora e sempre il corpo: l’arena dove si combattono i disagi più profondi, la tela bianca su cui si imprimono fragilità e paure: desiderio di sparizione, senso di colpa e necessità di controllo, sono il mantra delle persone che hanno sofferto o soffrono di disturbi alimentari.
Mangiare troppo o non mangiare affatto, ingozzarsi e liberarsi in un ciclo senza sosta, simbolicamente rappresentano la neutralizzazione del dolore; sono atti che hanno il valore di un potente anestetico per spostare l’attenzione dal caos e la sofferenza che comportano una società violenta e abusante. Questi disturbi non nascono unicamente da traumi, sempre più spesso e inesorabilmente le donne sono vittime di una forma di mimetismo estetico che nasce dal mito della bellezza esteriore. Nella nostra epoca, troppo spesso le donne sono stigmatizzate e discriminate sulla base della forma corporea, del peso e della taglia. L’ossessione dello specchio e dell’autorappresentazione social, hanno poi esacerbato il problema del raggiungimento della perfezione estetica con un impatto devastante sulla salute psicofisica delle donne, soprattutto giovani e giovanissime
Revenge porn, victim blaming, slut e body shaming, cat calling, ecc. sono termini che oramai fanno parte del nostro linguaggio ed indicano abusi che abbiamo imparato a riconoscere: riguardano l’uso sessualizzato del corpo della donna e vari fenomeni nell’ambito della violenza di genere. Sono forme coercitive che inducono le donne ad una costante sorveglianza del corpo, a vergognarsene ed interiorizzare i pregiudizi basati sull’immagine corporea. Il mito della bellezza è un’arma contro le donne: gli ideali di bellezza sono irreali ed irraggiungibili. Un’ambizione che di fatto produce una costante insoddisfazione e odio per la propria immagine, che diviene teatro di mille ossessioni con derive patologiche gravi come bulimia, anoressia e la dismorfofobia, cioè l’incapacità di valutare in modo oggettivo la propria fisicità. Così, le donne diventano sempre meno sicure di sé e del loro corpo, intrappolate in un costante stato di inadeguatezza, di lacerazione, di ossessione, in una relazione estenuante e distruttiva con il cibo, il cui rifiuto corrisponde sempre più ad un rifiuto della propria persona.
In questa tappa, troviamo le foto del ciclo “Non conforme”: ritratti di donne perfette nelle loro imperfezioni, colte nell’unicità della loro bellezza naturale. Sono storie ordinarie di donne straordinarie che combattono gli stereotipi e i modelli di una società che frammenta e riassembla i mondi femminili trasformando la donna in un oggetto di consumo. La realtà di queste donne affiora limpida e inarrestabile nell’obiettivo di Barbara aiutandoci a mettere in discussione quella cultura patriarcale e sessista che elabora l’oggettivazione del corpo femminile, per cui le donne dovrebbero esistere innanzitutto attraverso lo sguardo degli altri, in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili. I ritratti di Barbara ci forzano a guardare le donne con i loro occhi, come le donne desiderano essere viste; ci raccontano storie di riscatto, di ritrovato amore per se stesse, superamento di solitudini, per creare coscienza sociale ed insegnarci a fare rete per superare l’asimmetria di potere tra i sessi. Molte le foto di gruppo in cui le donne valorizzano le loro ferite offrendosi come sostegno l’una dell’altra: si accettano, si abbracciano, intrecciano simbolicamente le loro mani e i capelli.
Un monologo a due voci accompagna il pubblico nella visita, sottolineando quel linguaggio sessista, giudicante e manipolatorio che la società usa per stigmatizzare i comportamenti delle donne e controllarle tramite lo strumento dello stereotipo, colpevolizzandole. Da sempre viene loro detto come essere e come non essere, cosa fare e cosa non fare per non essere etichettate, discriminate ed emarginate. Il testo, liberamente ispirato al manifesto femminista Be a lady, they said di Camille Rainville, è scritto ed interpretato da Damiana Marzano e Maria Concetta Borgese.
TERZA TAPPA> Fioriscono le parole nuove
Barbara è anche educatrice ed assistente sociale, con questo lavoro riesce a coniugare le sue due grandi passioni: la fotografia e il desiderio di essere utile agli altri. Negli ultimi anni il suo impegno è diventato militante e il suo gesto artistico si è caricato di significati politici. Secondo Barbara l’Arte è un luogo di incontro e rigenerazione, può essere un valido strumento di ricerca e impegno sociale per innescare processi di cambiamento, invitare alla riflessione collettiva e contribuire alla trasformazione della società. In generale, la cultura è strategica per interpretare e prevenire quei fenomeni che provocano discriminazioni ai danni delle donne, ostacolandone il pieno sviluppo della personalità e delle capacità umane.
Porre fine alla discriminazione dei sessi e alla violenza contro le donne è anche fra i gli SDG (Sustainable development goals) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Attraverso l’uguaglianza di genere e la valorizzazione di un modello di leadership generativa al femminile, si può mettere in atto una rivoluzione rispetto ai classici sistemi di gestione progettati dagli uomini, che hanno mostrato il loro fallimento. Ma non si tratta tanto di aiutare le donne, piuttosto di aiutare il mondo attraverso le donne per adottare nuove strategie di sviluppo, di difesa del pianeta, nuovi paradigmi per la giustizia sociale e la cura dell’altro, soprattutto fragili e indifesi, nuovi approcci che generano nuova umanità.
Nella Fornace troviamo il passaggio dalla consapevolezza alla rinascita, le ferite che le donne hanno imparato a curare germogliano fiori. La ricerca di Barbara approda ad un nuovo livello, passando dalla immaginazione alla progettualità, dalla riflessione alla costruzione, si fa portatrice di impegno sociale e politico per far fiorire una nuova umanità.